Arko Datto è un artista visivo indiano che ha intrapreso la fotografia attraverso un percorso non convenzionale. Dopo aver conseguito due lauree magistrali, una in matematica e l’altra in fisica teorica, ha deciso di cambiare radicalmente rotta, dedicandosi alla fotografia. Il lavoro di Datto affronta le grandi questioni esistenziali del nostro tempo, esplorando temi come la migrazione forzata, il tecno-fascismo, la sorveglianza digitale, la scomparsa delle isole, i mondi notturni e l’innalzamento del livello del mare. I suoi progetti personali a lungo termine, così come i lavori su commissione, sono stati pubblicati su prestigiose riviste internazionali, mentre le sue fotografie sono state esposte in Europa e in Asia. Datto ha pubblicato tre libri fotografici: Pik-Nik (Éditions Le bec en l’air, 2018), Mannequin (Edizioni L’Artiere, 2018) e Snakefire (Edizioni L’Artiere, 2021).
Nel suo progetto in corso Shunya Raja Monographies, Datto si concentra su una delle questioni più urgenti del nostro tempo: il cambiamento climatico. Piuttosto che concentrarsi su eventi catastrofici o momenti di cronaca, il suo sguardo si rivolge all’impatto psicologico, lento e continuo, che questa crisi esercita sulle comunità costrette ad adattarsi quotidianamente. Ambientato nel delta del Bengala, una delle regioni più esposte al rischio di innalzamento del livello del mare, il progetto esplora la fragile relazione tra essere umano e ambiente, documentando la devastazione che il cambiamento climatico infligge ai più vulnerabili.


Come in molte delle sue opere, Datto ha scelto di strutturare questo progetto come una trilogia, utilizzando tre approcci visivi e concettuali distinti per indagare uno stesso spazio geografico e tematico. Il primo capitolo, Kings of a Bereft Land, impiega uno stile documentaristico classico: paesaggi e ritratti realizzati in luce naturale, con soggetti che fissano direttamente la fotocamera. Il secondo capitolo, Where Do We Go When the Final Wave Hits, cambia drasticamente tono e tecnica, utilizzando una fotografia con flash notturno per evocare un’atmosfera distopica, quasi surreale, maniacale e inquietante. L’oscurità, insieme reale e simbolica, amplifica la tensione psicologica di chi vive in costante prossimità della catastrofe. Il terzo e ultimo capitolo si spinge ulteriormente verso la sperimentazione, ricorrendo alla fotografia a spettro completo e all’infrarossa. Il delta viene così trasformato in un paesaggio di guerra, con le sue rovine e i suoi sopravvissuti immersi in tonalità magenta e rosa, che conferiscono alle immagini una dimensione ultraterrena.


Con questa trilogia, Datto non solo sperimenta con diversi linguaggi visivi, ma costruisce un racconto stratificato sulla vulnerabilità umana di fronte alla crisi climatica. Lo abbiamo incontrato al Festival di Fotografia Europea 2024 dove ha parlato apertamente del suo lavoro, delle basi concettuali dietro la trilogia e del ruolo che l’arte può avere nell’affrontare le crisi planetarie. Considerata l’attualità e l’urgenza dei temi trattati, abbiamo deciso di proseguire la conversazione per riflettere su una crisi che non accenna a scomparire.
Cosa ti ha ispirato a creare la trilogia fotografica Shunya Raja Monographies e qual è il tuo obiettivo principale nel documentare il delta del Bengala come epicentro del cambiamento climatico?
Vivo anch’io nel delta del Bengala. Sono di Calcutta, che si trova appena fuori dall’area centrale del delta. Ma se il delta verrà colpito duramente e inizieremo a perdere terra a causa dell’innalzamento del livello del mare, anche Calcutta ne risentirà inevitabilmente. Ciò significa che i miei amici, la mia famiglia, tutti noi, saremmo costretti a trasferirci, diventando potenzialmente rifugiati climatici. Penso che questa sia stata una delle principali motivazioni per iniziare questo progetto.
Da lì, il lavoro si è evoluto gradualmente fino a diventare una trilogia. La trilogia è essenzialmente un modo per esplorare lo stesso tema- il cambiamento climatico nel delta del Bengala- attraverso tre approcci visivi distinti. Ogni capitolo offre una lettura diversa della crisi: concettuale, artistica, estetica. È il mio tentativo di affrontare la questione da un’angolazione diversa, per riflettere sulla complessità di ciò che sta accadendo.
In realtà, lavoro spesso in trilogie per i miei progetti. Questo formato è in parte ispirato a registi che ammiro, come Lars von Trier, che spesso dividono il loro lavoro in trilogie.
Per quanto riguarda ciò che spero di ottenere con questo lavoro: credo che il delta del Bengala sia uno degli epicentri del cambiamento climatico. Ci sono altre regioni che affrontano minacce simili, ma questa è quella su cui ho scelto di concentrarmi, principalmente perché’ qui vivono milioni di persone. È una delle aree più densamente popolate al mondo, e se questa terra dovesse diventare inabitabile nei prossimi anni o decenni, ci troveremmo di fronte a una crisi di sfollamento di proporzioni enormi.
Il problema è che non c’è davvero un posto dove queste persone possano andare, perché le regioni circostanti sono già sovraffollate. Quindi, per me, è fondamentale non solo raccontare la storia del delta del Bengala, ma anche inquadrarla in un contesto più ampio, quello della crisi climatica globale. Voglio mantenere viva questa conversazione- a livello locale, regionale e globale.

Come hai affrontato la sfida di visualizzare concettualmente il cambiamento climatico attraverso la tua fotografia, e quali tecniche hai utilizzato per trasmettere visivamente il percorso delle persone sfollate e dei paesaggi in via di scomparsa nella regione del delta del Bengala?
Per me, l’obiettivo principale era guardare al cambiamento climatico da una prospettiva diversa, che si allontanasse dalla fotografia delle breaking news. Uno dei grandi limiti della rappresentazione mediatica della crisi climatica è proprio questo: viene spesso filtrata attraverso momenti di catastrofe- cicloni, inondazioni, incendi forestali. Un disastro colpisce, i fotografi accorrono, documentano la devastazione immediata, e poi tutto tace, fino alla prossima emergenza.
Ma ciò che ho capito lavorando nel delta del Bengala è che lì le persone vivono con il cambiamento climatico ogni singolo giorno. Non lo percepiscono come una serie di incidenti isolati, , ma come una realtà continua. Sono costrette ad adattarsi 24 ore su 24, 7 giorni su 7. L’innalzamento del livello del mare condiziona ogni aspetto delle loro vite: da quando e come lavorano, a come navigano le maree, all’ansia sempre presente dell’acqua che si insinua.


Il mio lavoro è un tentativo di spostare l’attenzione dai momenti di crisi all’esperienza quotidiana, vissuta, del cambiamento climatico. Il primo capitolo del progetto è più formale- paesaggi e ritratti, strutturati e composti. È la parte del lavoro che stiamo esponendo qui al Festival. Presentiamo anche il secondo capitolo, che si svolge interamente di notte. Le immagini diventano più oscure, più minacciose, quasi disorientanti.
Se il primo capitolo può essere definito poetico, anche se è poesia in mezzo alla distruzione, il secondo e il terzo capitolo si addentrano in uno spazio più distopico. In quelli, le persone stanno lottando attivamente contro l’acqua che sale, e quella battaglia spesso avviene di notte. L’assenza di elettricità in molte di queste aree significa che le persone stanno letteralmente affrontando un nemico che non possono vedere. L’acqua è imprevedibile; può arrivare da qualsiasi parte, in qualsiasi momento.
C’è un senso di terrore reale, una tensione psicologica fortissima. Mi ha ricordato una zona di guerra- dove il pericolo può colpire da qualsiasi direzione, inaspettatamente. Parliamo spesso della “guerra al terrorismo”, della “guerra al cambiamento climatico” o anche della recente “guerra contro la pandemia”. Queste metafore sono ovunque.
Puoi spiegare il significato dei titoli Kings of a Bereft Land e Where Do We Go When The Final Wave Hits, presenti nella tua mostra? In che modo questi capitoli si collegano alla tua narrazione visiva sul cambiamento climatico nel delta del Bengala?
Kings of a Bereft Land è fondamentalmente una traduzione poetica di Shunno Raja, che è il titolo originale del primo progetto nella mia lingua madre, il bangla. Shunno significa “vuoto” o “zero”, mentre Raja significa “re”. Quindi, Shunno Raja si traduce letteralmente come “Re del Nulla” o “Re del Vuoto”.
Il titolo nasce da una conversazione che ho avuto durante uno dei miei viaggi. Una delle persone che ho incontrato si è descritto, insieme ad altri, come uno Shunno Raja. Ciò che intendeva era profondamente toccante: questa è una terra di abbondanza – fertile e ricca – dove le persone possono prosperare finché la terra rimane intatta. Ma quando la terra scompare, come spesso accade a causa dell’innalzamento del mare e dell’erosione, la caduta è improvvisa e totale. Si passa dall’avere tutto al non avere nulla in un istante. Ed è qui che entra in gioco l’idea del “re”: un re che un tempo aveva un regno, e che ora si ritrova con niente.
Il secondo titolo, Where Do We Go When the Final Wave Hits? nasce dalla stessa incertezza esistenziale. Queste persone vivono in una lotta quotidiana con l’acqua. E un giorno, la terra potrebbe sparire del tutto. Quindi, la domanda angosciante è: quando arriverà l’onda finale, dove andremo? Questo è il nucleo emotivo e concettuale del progetto.


Potresti condividere un momento significativo del tuo lavoro sul campo nel delta del Bengala e come questa esperienza ha influenzato il tuo approccio artistico e la tua comprensione del cambiamento climatico nella regione?
Penso che ci siano diverse immagini nella mostra che potrebbero essere considerate momenti chiave, ma una in particolare mi colpisce profondamente. È la fotografia di un’intera famiglia in piedi davanti ai propri mobili. Quell’immagine ha un grande peso emotivo.
Quella notte, la famiglia si è svegliata improvvisamente rendendosi conto che il terreno sotto la loro casa stava scomparendo, trascinato via dal fiume a causa dell’erosione. Presi dal panico, hanno cercato di salvare tutto ciò che potevano. Quello che si vede nella foto sono i loro mobili che hanno recuperato, stesi al sole nel tentativo di asciugarli e salvarli.
Per me, quell’immagine è potente perché cattura la notte come uno spazio di paura e incertezza. È diventata un punto di svolta, non solo nella narrazione della fotografia, ma anche nella struttura della trilogia. Ha segnato un cambiamento concettuale dal primo al secondo capitolo. Ogni capitolo della trilogia scorre nel successivo, ma questo momento in particolare è stato una sorta di snodo critico, in cui la narrazione si è fatta più profonda e ha assunto un tono più cupo.
Qual è il messaggio principale che desideri trasmettere al pubblico attraverso la tua mostra fotografica e quali riflessioni o reazioni speri che gli spettatori abbiano dopo aver visto il tuo lavoro?
Più che essere spinto da un unico obiettivo, questo è un progetto ampio e in continua evoluzione su cui lavoro da oltre dieci anni, e immagino che continuerò, perché il cambiamento climatico non sparirà presto.
Questa è una delle sfide principali nel lavorare artisticamente sul cambiamento climatico: non è un evento singolo, ma una crisi persistente e in continua trasformazione. Quindi, il primo obiettivo di questo lavoro è sensibilizzare su ciò che sta accadendo nel delta del Bengala. È una regione profondamente colpita, eppure spesso rimane invisibile nelle discussioni più ampie sul clima.


Oltre alla consapevolezza, spero anche che questo progetto possa ispirare una forma di azione- idealmente su più livelli. Certo, c’è l’azione individuale, come ridurre la propria impronta di carbonio, di cui si parla spesso. Ma credo che la via più efficace sia l’azione collettiva- persone che si uniscono per fare pressione sui propri governi e chiedere cambiamenti sistemici. È lì che risiede il vero impatto.
Spero che questo lavoro possa contribuire, anche solo in minima parte, a quel movimento più ampio. Che possa servire come punto di riferimento o strumento, non solo per artisti, ma anche per attivisti, ricercatori, ONG e persino responsabili politici. Non sono un attivista, sono un artista, ma mi piacerebbe che questo progetto fosse utilizzato da chi lavora sul campo, come prova o testimonianza di ciò che sta accadendo. Se può sostenere i loro sforzi e mettere pressione sulle istituzioni affinché agiscano, allora sta adempiendo al suo scopo.
Silvia Donà